di Sergio Vazzoler

Il CSR Manager Network Italia è l’associazione nazionale che raduna i professionisti che presso ogni tipo di organizzazione (imprese, fondazioni d’impresa, società professionali, P.A., enti non profit) si dedicano, full-time o part-time, alla gestione delle problematiche socio-ambientali e di sostenibilità connesse alle attività aziendali.

Fulvio Rossi, milanese, classe 1958, responsabile CSR di Terna dal 2006, è oggi il Presidente del Network promosso da Altis (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) e da ISVI (Istituto per i Valori d’Impresa). Lo abbiamo incontrato per provare a scattare un’istantanea dello stato di salute della responsabilità sociale d’impresa in Italia, pratica in rapida diffusione ma ancora ricca di segnali contradditori.

 

La CSR in Italia: quali sono le principali tendenze in atto osservate dal network da te presieduto?

Senza dubbio si tratta di un fenomeno in crescita, confermato dai numeri. Nella ricerca che abbiamo condotto con il supporto scientifico di Altis (Università Cattolica) lo scorso anno, abbiamo censito 327 professionisti della CSR, nel 2005 erano 90. Il 40{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} delle imprese quotate ha un CSR manager. Aumentano i master universitari dedicati al tema o a sue declinazioni, come l’ambiente. Il Ministero del lavoro e quello dello Sviluppo economico hanno pubblicato un Piano d’azione nazionale sulla CSR. Questo bicchiere mezzo pieno lo possiamo però vedere mezzo vuoto se guardiamo al radicamento dei concetti relativi alla CSR sia nel management sia in generale nell’opinione pubblica e nei media.

Quanto pesa oggi la recessione economica negli investimenti dedicati ad azioni di CSR? E come è possibile far emergere l’importanza della responsabilità sociale in questo contesto?

Dipende da come le imprese interpretano la CSR. Se si concretizza solo nel sostegno a cause ambientali e sociali esterne, con un legame labile al business, può essere vista come una spesa da ridurre in fase recessiva. Va detto però che in questa fase di acuito disagio sociale alcune imprese hanno responsabilmente mostrato una maggiore sensibilità al sostegno sociale, ma è difficile avere un quadro generale. Certo è che quando la CSR è vista come una leva per generare un doppio beneficio, di tipo sociale da un lato e di tipo aziendale dall’altro, allora le ragioni per praticarla continuano a esistere indipendentemente dalla crisi.  Ad esempio, ridurre i consumi energetici fa bene all’ambiente e fa risparmiare sui costi. Non che sia sempre facile identificare gli interventi “a doppia vincita”, ma perché rinunciarvi?

Negli anni passati molte imprese hanno confuso la responsabilità sociale con il mecenatismo. La recente tragedia del crollo della fabbrica di componenti tessili in Bangladesh ha portato esperti come Christine Bader del “Guardian” (vedi la nostra traduzione in “Focus Mondo”, ndr) a identificarla come un punto di svolta cruciale per la responsabilita sociale d’impresa. Quali riflessioni ti ha portato a fare questa vicenda?

Ritorniamo al punto di prima: le attività di CSR sono declinate in modi molto diversi. Un comportamento responsabile verso gli stakeholder dovrebbe essere il punto di partenza per ridurre i rischi e per cogliere opportunità, nella consapevolezza che l’impresa è immersa in un tessuto di relazioni che durano nel tempo. Talvolta non è questo l’approccio adottato, e se le attività sono solo di facciata il comportamento responsabile in sostanza può non esserci. A volte invece l’impegno è sincero e serio, ma restano delle falle: purtroppo non è facile trovare un equilibrio tra la pressione a produrre risultati economici nel breve termine e l’orientamento a gestire in modo responsabile. Spesso la catena di fornitura è un punto debole. Non dobbiamo però concludere che allora è tutto da buttare: la CSR si afferma con un processo di miglioramento continuo.

Quanto incide la comunicazione nel raggiungimento degli obiettivi di un’impresa socialmente responsabile? E a questo proposito come vedi lo stato dell’arte del comunicare la CSR?

La comunicazione è importante e necessaria. Le attività di CSR sono volontarie e solo facendole conoscere le imprese possono instaurare un circolo virtuoso con i propri stakeholder.  Questo porta talvolta a enfatizzare gli aspetti positivi, se non al green washing o simili, un tipo di comunicazione che non fa bene alla CSR, toglie credibilità. Bisognerebbe invece – e qui anche i media hanno una responsabilità – aiutare i consumatori e i cittadini a comprendere e valutare la sostanza. La recente tendenza verso forme di reporting integrato, in cui l’operato dell’impresa viene rappresentato a tutto tondo, per gli aspetti finanziari e quelli di sostenibilità, potrebbe essere un passo avanti.

E per le Piccole e Medie Imprese a che punto siamo? Non mi pare ancora soddisfacente la sensibilità delle PMI nei confronti della CSR. È un problema economico, culturale o di comunicazione?

Credo che nelle PMI le attività di CSR siano in realtà abbastanza diffuse, solo che non le si chiama così. Penso soprattutto al senso di responsabilità verso i propri dipendenti e verso la comunità locale: sono tratti presenti nella cultura imprenditoriale italiana. Il fatto che non lo comunichino nelle forme tipiche delle grandi imprese – come gli indicatori di performance GRI, o il Rapporto di sostenibilità -dipende a mio avviso dalla mancanza di incentivi a una comunicazione generalizzata: a quali stakeholder dovrebbero parlare?

Dal tuo osservatorio privilegiato, quali differenze noti tra la CSR italiana rispetto a quella degli altri Paesi occidentali? Su cosa siamo più avanti e su cosa inseguiamo?

In Italia l’argomento CSR ancora fatica a diventare “mainstream”, in altri Paesi la sensibilità è molto maggiore. Un indicatore: la quota di investitori che decidono quali titoli comprare anche in base alle performance ambientali e sociali delle imprese è molto più bassa in Italia che nella media europea. Però non è raro che le imprese italiane impegnate sviluppino progetti che non hanno niente da invidiare ai campioni stranieri, anzi anche in questo campo si vede una certa creatività italiana.

Per concludere: quanto è importante “fare gruppo” come nel caso del CSR Manager Network per creare cultura in merito di responsabilità sociale?

E’ decisivo. Se vogliamo favorire la cultura della CSR dobbiamo fare gruppo, anche coordinando maggiormente le – poche – iniziative già relativamente affermate: da un lato è necessario consolidare le capacità professionali, per cui lo scambio di esperienze è utilissimo. Dall’altro dobbiamo fare massa critica: l’unione fa la forza e la CSR deve ancora irrobustirsi.