Come ogni anno, puntuali come un orologio svizzero, arrivano i risultati dell’Osservatorio Nimby Forum. Ad essere, al contrario, in perenne ritardo è l’avanzamento dei progetti che proprio l’osservatorio va a fotografare: infrastrutture, impianti di gestione e smaltimento rifiuti, centrali elettriche e impianti da fonti rinnovabili. Sì, certo, anche le energie cosiddette “pulite” non si sottraggono a questa triste classifica nazionale.
Giunto ormai all’ennesima edizione, il Nimby Forum appare privo di sostanziali novità rispetto alle ultime edizioni: nonostante il significativo aumento dei “no” rispetto all’anno precedente, i “pallini” di diversi colori che compaiono sulla mappa italiana e che corrispondono alle opere contestate non mutano la sostanza dell’analisi. Nel nostro Paese si guarda ormai con sospetto a tutto ciò che ha un più o meno significativo impatto ambientale. E la “fotografia” annuale corre ormai il rischio di diventare ingiallita…
Non solo. I risultati di questo osservatorio ogni anno vengono commentati da giornali ed esperti con stupore, rabbia e frustrazione. E il termine che ricorre maggiormente in queste dichiarazioni è “paradosso”: in tempi di recessione economica, disoccupazione strutturale e mancanza di crescita – nel leitmotiv dei commentatori – è appunto paradossale opporsi a qualsiasi tipo d’impianto o infrastruttura che porterebbero sviluppo, occupazione e crescita.
Sì, d’accordo, ma perché allora non cambia nulla da un anno all’altro? Perché le parole d’indignazione si ripetono sempre uguali alla pubblicazione di questi numeri, senza contenere uno straccio di proposta per uscire da questa impasse? Forse questo cortocircuito va ben al di là dell’opposizione a questo o quell’impianto, ma s’inserisce in un quadro assai più esteso che riguarda l’insoddisfazione economica, sociale e politica del Paese.
Anziché continuare a concentrarsi sulla sindrome Nimby, sarebbe preferibile leggere questi dati in base alla vecchia teoria “Exit, Voice e Loyalty” di Albert Hirschman: se nei confronti dei prodotti di consumo, abbiamo avuto e continuiamo ad avere la possibilità individuale dell’uscita (exit), passando da un brand che ci delude ad un altro che ci soddisfa, così non è nei confronti della dimensione “pubblica” (che poi sia un privato o un’istituzione il committente poco conta). In questo caso, non avendo la possibilità di uscita, la delusione s’incanala verso la protesta collettiva (voice).
Che la società italiana (ma non solo) non sia più minimamente disposta ad adattarsi (loyalty) alle ricette economiche e politiche che le vengono sottoposte dalla classe dirigente ci pare un dato incontrovertibile. E lo è non da oggi. Il ritardo nel cambiamento è stato provocato, da un lato, dall’assenza di una possibile via d’uscita e, dall’altro, dalla totale incapacità di ascoltare la “voce” del malcontento.
Alle ultime elezioni politiche, però, la “voce” di protesta ha iniziato ad uscire e incanalarsi in una forza anti-sistema come è il Movimento 5 Stelle. Che non a caso si fa interprete del “no” alle grandi opere e agli impianti che hanno un qualche impatto sull’ambiente e il paesaggio. Ecco, allora, che dalla pubblicazione dell’ultima fotografia sul nimby ci si poteva, anzi ci si doveva aspettare una reazione meno autoassolutoria e superficiale rispetto alla minestra riscaldata della comunicazione del “paradosso”: neppure la “voice” che inizia a farsi “exit” sembra far riflettere a sufficienza la classe dirigente sulla necessità di un cambiamento radicale.
Un recente articolo apparso su Bloomberg Businessweek racconta le ragioni e i segreti del successo di Samsung. A un certo punto si riporta come anni fa, dopo un’analisi impietosa dei propri prodotti che non sfondavano, Lee kun-hee, il grande capo del colosso sudocoreano, convocò in fretta e furia centinaia di manager in una sala per tre giorni e una sua frase di allora (“Cambiate tutto tranne mogli e figli”) suona ancora oggi per i dirigenti di Samsung come il motto kennediano “non chiedetevi cosa può fare il paese per voi, ma cosa potete fare voi per il paese”.
Ecco, forse, analogamente dobbiamo ancora aspettare chi, nel nostro Paese, sappia cogliere fino in fondo la necessità di una svolta nel modo di osservare, interpretare e reagire a queste forme di protesta: non chiediamoci più perché sono così tante le opere bloccate, chiediamoci cosa dobbiamo cambiare per riconquistare la fiducia verso il “fare”…