Parlare di salute non è facile, ancor meno sensibilizzare la cittadinanza sull’adozione di comportamenti e stili di vita sani. Questa azione deve passare, necessariamente, da un coinvolgimento attivo dei singoli, i quali sentendosi parte integrante di un processo di acquisizione di consapevolezza, da spettatori di un processo ne divengono attori. Partendo da questo presupposto e basandosi su uno studio nazionale sui fattori di rischio maggiormente diffusi per la salute, l’Emilia Romagna ha avviato un progetto sperimentale, finalizzato a far guadagnare salute alla popolazione. Ne abbiamo parlato con Elvio Raffaello Martini, psicologo di comunità, che ha supervisionato le varie fasi di lavoro e svolto un ruolo di facilitatore tra i soggetti coinvolti.

Come nasce il progetto? Il progetto è partito dalla volontà della Regione Emilia Romagna e dell’Azienda Sanitaria di Piacenza di promuovere la salute attraverso una strategia di comunità, passando cioè dalla mera erogazione di servizi al coinvolgimento diretto dei cittadini, per sensibilizzarli sul tema della salute. Il tutto basandosi sul progetto nazionale “Guadagnare salute” che ha identificato in fumo, uso/abuso di alcool, sedantiertà e alimentazione scorretta i quattro fattori di rischio alla base delle malattie croniche più diffuse nel nostro Paese. L’obiettivo era fare in modo che la comunità si interrogasse su questi aspetti e ciascuno individuo sul proprio stile di vita. Il progetto venne lanciato per la prima volta tre anni fa nel piccolo comune di Podenzano, poi replicato in un quartiere di Piacenza – La Besurica – ed è tutt’ora in corso in provincia di Parma, nel comune di Traversetolo.

Quali sono gli aspetti innovativi di questo approccio? L’innovazione sta nel fatto che la comunità, da destinataria diventa partner e protagonista dell’azione. Ciò è abbastanza insolito in un campo quale la salute. L’educazione sanitaria, solitamente, presuppone la presenza di esperti che dicono cosa fa vatto e cosa evitato. Qui, invece, la promozione della salute passa dalla partnership della comunità. Tali principi, a livello teorico, sono ben noti. Basti pensare alla Carta di Ottawa (1986) che raccomanda il rafforzamento dell’azione comunitaria, lo sviluppo di capacità personali, la creazione di un ambiente favorevole per promuovere idee. Nella realtà, però, tale approccio non trova facile applicazione.

Concretamente come viene realizzato un progetto partecipativo di questo tipo? Le tappe del percorso prevedono vari livelli di azioni. Innanzitutto all’interno dell’Azienda Sanitaria si forma un gruppo di lavoro costituito da operatori che vengono adeguatamente formati e che realizzereranno operativamente il progetto, insieme ai cittadini. Successivamente viene elaborato uno studio della comunità esistente per capire quali soggetti possono essere identificati come interlocutori privilegati della stessa, cioè coloro che sono in grado di dare informazioni, attivare altre persone, fornire sollecitazioni. Vengono scelte dalle 50 alle 70 persone appartententi ai settori più disparati. Con ciascuna di loro si realizza un colloquio, poi vengono invitate a una riunione preliminare in cui viene esplicitata la natura del progetto e indagata l’opinione dei partecipanti attraverso interviste e sondaggi. Da questa riunione viene costituito un Comitato Promotore, formato da rappresentanti della comunità locale, i quali con l’aiuto del gruppo di operatori, si dedicano alla preparazione di un laboratorio di progettazione partecipata per affrontare i temi di maggiore interesse. Solitamente il Laboratorio vede lavorare insieme, per due giorni, un centinaio di soggetti, tra operatori e cittadini. Il risultato di questo confonto intensivo consiste nell’individuazione di 3/4 aree di intervento sulle quali lavoreranno altrettanti gruppi per progettare azioni mirate, sempre con il supporto del gruppo di operatori, che in questo modo passano da propositori a coloro che si mettono al servizio. Le azioni vengono poi presentate ai cittadini e realizzate

Ci fa qualche esempio di ciò che è stato realizzato? Ad esempio sono stati creati orti per coltivare in modo naturale i prodotti, sono stati promossi corsi di cucina alternativa e organizzati gruppi di cammino per incentivare l’attività fisica. Alcuni cittadini hanno addirituttra proposto una disciplina, tavolta discussa, come il parkour per favorire il movimento e lo sport. Si possono fare, davvero, tante cose, lasciando spazio alla creatività. In questa fase quello che conta non è tanto misurare l’impatto sulla salute, quanto il cambiamento nel comportamento delle persone, perché la partecipazione rappresenta un valore in sé e un cittadino motivato e coinvolto saprà perseguire, autonomamente, la salute e il benessere anche una volta che il progetto è concluso. Quello che io definisco passare “dal progetto al processo”.

Sembra fin troppo facile raccontato così. Non ci sono state resistenze? In realtà no. Di fronte a progetti partecipativi di questo tipo la comunità coinvolta tende a reagire sempre con un iniziale disorientamento. Ma man mano che l’idea viene interiorizzata, compresa e accolta, chi decide di mettersi in gioco lo fa sul serio. In questo caso c’era una difficoltà in più, che però è stata superata benissimo: quando si ha a che fare con la salute il primo pensiero va ai servizi e quindi la logica predominante è quella che corre sull’asse bisogno-risposta. Lo sforzo del progetto è stato quello di spostare l’attenzione verso una condizione più generale di benessere, in cui contano le competenze, le passioni, i desideri dei singoli. Il singolo scatena l’entusiasmo, dà libero sfogo alle proprie attitudini e cessa di percepirsi come un portatore di domande, bensì si scopre capace di contribuire a fornire delle risposte per sé e per la comunità. In questo processo, la fatica maggiore forse la fanno gli operatori perchè devono uscire dal loro ruolo, svestire i panni di chi fornisce un servizio e porsi in una condizione di ascolto e collaborazione.

Questo progetto sembra dirci che il settore pubblico può fare, anche in un campo delicato come la salute. Assolutamente si. Tutto ciò che si sta realizzando in Emilia Romagna è partito da un progetto nazionale, pubblico. Gli attori che hanno messo in moto il processo sono due enti pubblici, la Regione Emilia Romagna e l’Asl di Piacenza. La loro motivazione è stata determinante, ma ancora più decisivo è stato il modo in cui essi hanno sostenuto il protagonismo delle comunità. Senza questo orientamento un progetto di comunità non può funzionare. 

]]>