Noemi Podestà è docente di “Analisi delle Politiche Pubbliche” all’Università del Piemonte Orientale, ricercatrice ed esperta di sviluppo locale, sostenibilità, conflitti territoriali e democrazia deliberativa. Su questi temi ha all’attivo diverse pubblicazioni, tra cui il libro curato insieme a Tommaso Vitale dal titolo emblematico “Dalla proposta alla protesta, e ritorno. Conflitti locali e innovazione politica”. Ed è proprio sul tema dei conflitti locali che “bloccano” lo sviluppo del Paese che ci siamo confrontati insieme a lei, analizzando le dinamiche dei diversi protagonisti di questa impasse e le possibili soluzioni.
Tra i tanti mali che affliggono il Paese c’è anche quello rappresentato dalla palude in cui finiscono tutte le opere industriali e le infrastrutture che hanno un qualche impatto sull’ambiente: ferrovie, strade, porti, impianti per lo smaltimento rifiuti, linee elettriche, strutture energetiche. Persino gli impianti di produzione energetica dalle cosiddette fonti “pulite” non sfuggono a questo triste destino. Da dove nasce e come si affronta questo cortocircuito?
Cominciano ad essere molti i contributi nella letteratura scientifica che ci offrono interpretazioni assai complesse di questo fenomeno. Mentre nel resto del mondo sono state elaborate una serie di tecniche e metodi per risolvere (ma anche per prevenire) situazioni conflittuali, in Italia di fronte a questi casi si assiste, quasi sempre, a provvedimenti ex post, ad interventi emergenziali e poco efficaci. Le dinamiche di queste opposizioni sono forse quindi da rintracciare nel contesto istituzionale ma soprattutto nella scelta o meno degli attori pubblici locali di adottare, al di là delle formali procedure di autorizzazione e valutazione, strategie negoziali e procedure di coinvolgimento dei cittadini nella fase di messa in atto dei progetti territoriali. Sempre più spesso i cittadini che si oppongono alla realizzazione di alcune opere, si riuniscono in comitati e tendono sempre più a dotarsi di competenze tecniche, spesso attraverso il coinvolgimento di esperti, sulla base delle quali riescono a controbattere in modo efficace e scientificamente fondato gli argomenti utilizzati dai sostenitori delle localizzazioni.
Recentemente il Presidente di Assoelettrica, Chicco Testa, ha messo i piedi nel piatto della cosiddetta “sindrome Nimby” dichiarando che “i comitati locali di opposizione agli impianti sono soltanto l’epifenomeno, i complici inconsapevoli di una classe dirigente che si divide su tutto, che propaga leggende metropolitane spacciandole per verità scientifiche e che crea mostri immaginari per vestirsi da cavalieri senza paura”. È una spiegazione che la convince?
Non leggerei il fenomeno Nimby solo in termini negativi. Già Tocqueville ci insegnava che la tendenza dei cittadini ad associarsi, seppur in casi di protesta, può essere interpretata come forma virtuosa di partecipazione alla vita pubblica, in questo senso potrebbe essere sintomo di una vitalità del tessuto sociale attraverso la quale costruire percorsi di partecipazione per la formulazione di politiche pubbliche: «Ci si unisce infine per resistere a nemici del tutto immateriali: si combatte in comune l’intemperanza. Negli Stati Uniti ci si associa per scopi di sicurezza pubblica, di commercio e di industria, di morale e di religione» (Tocqueville 1968, p. 227). La volontà dei cittadini di associarsi può quindi anche rappresentare la linfa vitale della democrazia, del rinnovamento e dello sviluppo dello spirito umano. Alle istituzioni il compito di rinnovarsi allo scopo di saper inserire, in modo adeguato e costruttivo, nei processi decisionali questa “vitalità” del tessuto sociale.
Spesso si parla dell’assenza di partecipazione “strutturata” come una causa di questa impasse e si guarda all’esperienza francese del “débat public” come possibile soluzione. Poi, però, il legislatore preferisce rimandare l’introduzione di questo tipo di istituto qui da noi. Sarà più il timore di perdere ulteriore tempo in un Paese già piegato dalla burocrazia oppure una sottovalutazione degli aspetti comunicativi?
Credo si tratti di un problema di persistente sottovalutazione del potenziale contributo che i cittadini comuni potrebbero dare ai processi decisionali soprattutto in termini di contenuto.
Le impasse attuative a cui assistiamo sono ormai molte e molto costose sia in termini di tempo che di risorse economiche. Una soluzione che preveda forme di partecipazione strutturata e che si ispiri ad esempio al “débat public” potrebbe aiutare il superamento di alcuni problemi legati all’implementazione di determinate politiche pubbliche. La volontà di coinvolgere in modo diretto i cittadini nelle decisioni pubbliche non rappresenta una forma di populismo o antipolitica, al contrario questi approcci favoriscono la discussione costruttiva e possono rappresentare un utile supporto alle normali forme di rappresentanza senza quindi togliere la propria ragion d’essere alle classiche forme e istituzioni di rappresentanza degli interessi.
Alle ultime tornate elettorali, in particolare alle recenti amministrative, abbiamo assistito a un vero e proprio crollo di affluenza. Si potrebbe leggere questo dato come l’altra faccia della medaglia della crisi di consenso, fiducia e rappresentanza che si ritrova nell’opposizione allo sviluppo. Cosa ne pensa?
A mio avviso i due fenomeni vanno interpretati in modo indipendente seppur si possa rintracciare qualche vicinanza. Prima di proseguire vorrei precisare una distinzione che in inglese risulta più diretta mentre in italiano non è sempre chiara. Con il termine politica (o politics) si intendono tutte le azioni e le attività che hanno a che fare con l’esercizio e la conquista del potere, mentre con politiche (policies) si intende, come ci ha insegnato Dye, tutto ciò che un governo decide di fare o di non fare. La disaffezione di cui lei parla credo interessi la politica. In questo senso i cittadini avvertono ormai uno “scollamento” tra le dinamiche di cui sono protagonisti i partiti e i problemi che quotidianamente devono affrontare. Non ripongono più fiducia nella politica come fornitore di risposte. La politica sembra incapace di produrre visioni condivise di un mondo futuro. D’altra parte, però, i cittadini sembrano sempre più interessati alle politiche, i dibattiti sui social network e il proliferare stesso di comitati di opposizione possono essere interpretati come indicatori di tali fenomeni. Le politiche riguardano la vita quotidiana dei cittadini, sono finalizzate a risolvere problemi, rappresentano le risposte concrete alle questioni pubbliche. Forse dovremmo ripartire dalle politiche per ritrovare la fiducia dei cittadini nella politica.
Abbiamo parlato di comunità locali, politica e strumenti legislativi. Ma le imprese e gli investitori in questo contesto così fragile e privo di certezze, possono ancora mettere in campo azioni e ricette di qualche tipo?
Le imprese possono tentare di superare questo momento di incertezza effettuando da un lato investimenti in attività di ricerca e sviluppo e concentrando le proprie energie avviando processi di innovazione basati sull’apprendimento organizzativo. Per quanto riguarda il primo aspetto non vi è molto da spiegare. Ci tengo invece a spendere qualche parola per spiegare meglio il secondo concetto. Sempre facendo riferimento ad alcune teorie prodotte dalla letteratura scientifica, l’apprendimento può essere interpretato come un continuum i cui poli sono costituiti dal prevalere dell’esplorazione da un lato e del consolidamento dall’altro. Nel primo caso tutte le energie degli attori saranno rivolte alla ricerca di soluzioni innovative o nell’utilizzo al tentativo di quelle già preesistenti: questo è lo spazio della creatività, della sperimentazione, dell’invenzione e della scoperta. Nel secondo caso le risorse degli attori in gioco saranno rivolte al perfezionamento e all’affinamento delle alternative in gioco, in questo caso la scelta è volta verso il raggiungimento del risultato più certo e sicuro, all’utilizzo più efficiente delle soluzioni già presenti sul campo. Un secondo punto di vista riguarda l’idea che il processo di apprendimento in una qualsiasi organizzazione o in un sistema è costituito dal processo di cambiamento che il sistema stesso compie attraverso la messa in circolo di conoscenze e informazioni in possesso ai membri. Tale circolo diventa tanto più virtuoso quanto più le informazioni e le conoscenze “interne” si mescolano e si adattano a quelle che provengono dall’esterno creando così un nuovo contesto.