James Hansen* Può sembrare lapalissiano, ma cresce nel settore degli aiuti internazionali la percezione che la povertà in ultima analisi dipenda dalla mancanza di soldi. I grandi programmi di assistenza allo sviluppo del dopoguerra sono stati perlopiù basati su trasferimenti economici diretti o indiretti tra governi, con donazioni vincolate, garanzie per i finanziamenti, ma anche aiuti materiali come sacchi di cemento o di farina. Troppo spesso questi aiuti sono stati soggetti a inefficienze e attriti: dalla corruzione e i furti ai semplici conflitti d’interesse, dall’incapacità amministrativa alle interferenze politiche di ogni genere. E se invece si dessero i soldi direttamente a chi ne ha bisogno, senza le intermediazioni burocratiche e politiche? L’idea è di moda e da qualche anno c’è un fiorire di iniziative in questo senso. L’ente benefico GiveDirectly inizierà tra poco a dare direttamente, a regalare, un dollaro al giorno per farne cosa vogliano a circa seimila kenioti — l’equivalente di uno stipendio medio annuo secondo l’organizzazione. L’assistenza, intesa solo ad aumentare il reddito delle famiglie, non è legata ad alcuna condizione. I soldi potrebbero essere spesi per la scolarizzazione dei figli, per le cure mediche o per lanciare piccole attività economiche — ma non è detto. Se vogliono, gli interessati possono anche berseli o giocarli alla lotteria. Il concetto del cosiddetto basic income, il reddito garantito, non è nuovo, ma è stato quasi sempre legato a fattori morali o comportamentali, per promuovere una “causa”. In Occidente, la causa sottostante è tipicamente il controllo sociale (lo scopo dei programmi elegantemente denominati “ammortizzatori” in italiano) o l’acquisto di consensi elettorali (idem). Già nel 16° secolo uno dei primi promotori dell’idea, l’umanista spagnolo Juan Luis Vives, riconosceva il problema: “Pure quelli che hanno sprecato i loro beni in una vita dissoluta,” scrisse nel 1526, “con il gioco, le donne di malaffare, gli eccessi di lusso e la ghiottoneria dovrebbero ricevere il cibo, perché nessuno dovrebbe morire di fame”. In una società mondiale che sembra ormai disporre più di contante che di posti di lavoro è un’idea che potrebbe finalmente essere matura, ma c’è un problema—in tanti casi la gente, a sorpresa, non vuole accettare i soldi “gratuiti”. In Kenia il progetto di GiveDirectly ha incontrato dei tassi di rifiuto insolitamente alti da parte di chi i soldi non li vuole, anche se del tutto gratis e “senza lacci”. Nella contea keniota di Homa Bay, i rifiuti arrivano al 45{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622}, a fronte di tassi di adesione del 96{f94e4705dd4b92c5eea9efac2f517841c0e94ef186bd3a34efec40b3a1787622} in simili progetti condotti in Uganda e Rwanda. Il Country Director, Will Le, dice: “Abbiamo trovato che la gente tipicamente rifiuta per scetticismo. I destinatari hanno difficoltà a credere che un’organizzazione come GiveDirectly gli regalerebbe il salario di un anno in contanti, senza condizioni. Pertanto, hanno inventato delle loro spiegazioni, comprese voci secondo le quali i soldi sarebbero associati a culti o all’adorazione di Satana”. Sciocchi questi kenioti, ma forse il culto c’è, anche se Mr. Le — ex-analista della Bain Capital e poi alla Gates Foundation — non lo vede. Non è un “culto” l’idea occidentale dello sviluppo e della prosperità universale? Finalità lodevoli, ma da fertilizzare con lo sterco del Diavolo… *James Hansen ha raggiunto l’Italia nel Servizio diplomatico americano. Rimasto nel Paese come corrispondente del Daily Telegraph e dell’International Herald Tribune, diventa in seguito portavoce prima di Carlo De Benedetti e poi di Silvio Berlusconi. Più di recente è stato capo ufficio stampa di Telecom Italia. Già direttore della rivista di geopolitica ‘East’, è consulente di primari gruppi italiani per le relazioni internazionali. Pubblica settimanalmente la sua “Nota Diplomatica – real geopolitics”.]]>