obbligo di rimozione dei padiglioni al termine dell’EXPO. Tale intenzione, assolutamente lodevole negli intenti, rischia tuttavia – come sovente accade – di scontrarsi con la realtà e, in particolare, con le modalità attraverso le quali viene spesso data attuazione, in modo improprio, alle leggi ambientali. Sussiste, infatti, il rischio non remoto che qualche autorità, per eccesso di zelo, possa ritenere di dover classificare i materiali derivanti dallo smontaggio dei padiglioni come un autentico rifiuto da demolizione. Si tratta di una tesi che sembra scontrarsi con il buon senso e, soprattutto, con un fondamentale principio di tutela ambientale, qual è il principio di prevenzione della produzione dei rifiuti. Ma il problema rimane: l’organo di controllo, seguendo un’interpretazione tuzioristica, potrebbe invocare a suo supporto non solo una copiosa giurisprudenza in materia, ma anche diverse norme apparentemente a suo favore. Cerchiamo di fare chiarezza, affidando l’analisi e le possibili soluzioni a David Röttgen, tra i fondatori dello studio legale Ambientalex e della società di consulenza Waste and Chemicals.   In più di un’occasione i giudici penali e amministrativi hanno ritenuto che lo smontaggio di un edificio sia da classificarsi come un’operazione di demolizione dalla quale non può risultare null’altro se non rifiuti da demolizione, da assoggettare ad un regime particolare e severo. Senza andare troppo lontano nel tempo, già nel 2007(1) è stato ritenuto che il materiale proveniente da attività di costruzione o demolizione sia un rifiuto che, in caso di riutilizzo, conserva tale natura fino al completamento delle operazioni di recupero. In tale occasione, così come in molteplici pronunce successive(2), la Cassazione ha ribadito un orientamento che sembra ormai consolidato. In base a questa lettura, i padiglioni smontati (demoliti) dovrebbero essere gestiti come un rifiuto fino al loro rimontaggio o quantomeno sino al completamento delle eventuali operazioni di recupero necessarie ai fini del reimpiego degli stessi, almeno nella forma della separazione e selezione(3). Una certa apertura sembrava nascere quando nel 2008 la Corte di cassazione (sentenza n. 7466), pur affermando che gli inerti provenienti dalla demolizione di edifici sono sottoposti alla disciplina sui rifiuti, sembrava offrire una diversa soluzione al problema della corretta qualificazione dei materiali di demolizione, ossia quella di classificarli come un cosiddetto “sottoprodotto” e non come un rifiuto. Tale strada è stata sbarrata da una recente sentenza della Corte di cassazione(4) che correttamente ha stabilito che la demolizione di un edificio non può considerarsi un processo di produzione, da cui potrebbero quindi derivare sottoprodotti, definendo una simile soluzione una “evidente forzatura”(5). Quanto sopra del resto appare a prima vista anche in linea con il codice ambientale (art. 184 c. 3 lett. b) del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152) che classifica i rifiuti da demolizione come un rifiuto speciale. Alla luce di tutto ciò, l’organo di controllo potrebbe ritenersi autorizzato a sequestrare il cantiere in cui avviene lo smontaggio di un padiglione. Lo stesso dicasi per tutte le successive fasi di gestione dei singoli “pezzi” del padiglione sul territorio italiano. È evidente che un tale risultato urta il comune buon senso. Ma vi è di più. Una simile applicazione, all’apparenza rigorosa, delle norme sui rifiuti, appare in contrasto con i principi ai quali le stesse norme sui rifiuti si ispirano e, in particolare, con la ‘gerarchia dei rifiuti’. L’art. 179, comma 1, del Codice dell’ambiente, laddove introduce e precisa i criteri di priorità nella gestione dei rifiuti, sottintende, infatti, quale migliore opzione ambientale, l’attività di prevenzione rispetto alla generazione del rifiuto: l’attività di smontaggio di un padiglione, così come il suo successivo ricollocamento in un’altra ubicazione, rappresenta una misura di estensione del ciclo di vita del bene e, come tale, rappresenta una lodevole misura di prevenzione della produzione di rifiuti(6), motivo per cui il padiglione e le sue componenti non acquisterebbero mai la qualifica di rifiuto. In sintesi, merita un plauso l’intento, manifestato dagli operatori incaricati per le fasi del DOPO-EXPO, di riutilizzare i padiglioni rimossi. Tuttavia, la giurisprudenza sopra citata, frutto di un’interpretazione ormai datata della normativa ambientale, e il rischio mai del tutto evitabile di un eccesso di protagonismo di alcuni organi di controllo, potrebbero spingere a una generica e indifferenziata classificazione come rifiuto: ciò non farebbe altro che rendere ancora più evidente che la nozione di rifiuto, nel contesto storico-economico in cui ci troviamo, meriterebbe qualche attenta riflessione, specie se si considera che attualmente è in corso di revisione la normativa europea sui rifiuti. D’altronde, in caso di rimozione di un’impalcatura, a nessuno verrebbe in mente di classificare la stessa come rifiuto. Questa considerazione dovrebbe valere anche, nel caso in esame, per i padiglioni oppure, per allargare il tiro, per le tegole vecchie, le travi di vecchi cascinali pagate oro sul mercato del recupero edile, per i pavimenti di pietra, tutti materiali frutto di operazioni chiamate – impropriamente – di demolizione e pertanto classificati come rifiuto. Una nota di speranza finale: in una recentissima sentenza del 27 aprile 2015, n. 17380, la Corte di cassazione – sebbene abbia riaffermato che a tutti i materiali provenienti da demolizione (nel caso: sfridi di calcestruzzo) si applica sempre la disciplina dei rifiuti – ha comunque ammesso l’ipotesi che non si applichi la normativa sui rifiuti qualora si provi che questi materiali siano riutilizzabili senza trasformazioni. Per evitare quantomeno una condanna per gestione illecita di rifiuti, appare consigliabile che le operazioni di smontaggio siano eseguite con prudenza e in modo ordinato. Come? Occorre essenzialmente porre grande attenzione nella pianificazione ed esecuzione degli interventi. In particolare è necessario guardare:

  • alla qualità del materiale oggetto di smontaggio,
  • alle relative modalità di gestione concreta,
  • alla tipologia di operazioni svolte in loco,
  • alle eventuali modalità di effettuazione del trasporto,
  • alle eventuali fasi di lavorazione del materiale prelevato,
  • alle modalità e alle fasi di successivo utilizzo,
  • ai rapporti contrattuali in essere (anche capitolati, ecc.) tra le diverse parti coinvolte.
  Tutto ciò presupporrà, comunque, che gli organi di controllo abbandonino una lettura ormai giuridicamente superata, sebbene ancora assai diffusa, secondo cui “tutto è rifiuto”, in contrasto con l’obbligo di dare priorità alle operazioni che prevedono anzitutto il riutilizzo di un bene. ________________________________ 1) Sentenza Corte di Cassazione 11 gennaio 2008, n. 1188. 2) Fra gli altri: Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 13/04/2011) 29 aprile 2011, n. 16727; Sentenza Corte di Cassazione 2 dicembre 2011, n. 45023; Sentenza Corte di Cassazione 11 maggio 2012, n. 17823; Sentenza Corte di Cassazione 29 maggio 2013, n. 23049; Corte di Cassazione penale Sez. 3^, 4 febbraio 2014 (Ud. 05/12/2013), Sentenza n. 5470. 3) Fra gli altri: Cassazione 2 dicembre 2011, n. 45023; Sentenza Corte di Cassazione 29 maggio 2013, n. 23049. 4) Corte di Cassazione 15 ottobre 2013, n. 42342. 5) In tal senso anche Sentenza Corte di Cassazione 27 aprile 2015, n. 17380. 6) Art. 183, comma 1, lett. m), del Codice dell’ambiente]]>