Greenhushing, quando il silenzio è verde

12 Apr, 2023 | Focus Mondo

La parola silenzio. Il fenomeno del greenhushing

Dopo il greenwashing, la comunicazione ESG è alle prese con un nuovo rischio.

Sembra quasi paradossale: nell’epoca della sostenibilità e del rumore di fondo a essa associato, e soprattutto della corsa a dirsi sempre più green, c’è anche chi decide di tirarsi fuori dal gioco e ammantarsi di un silenzio verde. Così, alcune organizzazioni e imprese preferiscono non raccontare quanto fanno a livello di sostenibilità, tenendo per sé strategie, obiettivi e risultati (che a volte ci sono e a volte no) per evitare boomerang reputazionali. Il termine che usano gli addetti ai lavori è greenhushing.

Un trend in crescita

Il fenomeno del greenhushing, che sembra in aperta controtendenza rispetto all’esplosione di interesse intorno ai temi ESG, è in realtà sempre più diffuso. Un recente report di South Pole, società di consulenza B-Corp che sviluppa piani e progetti per la riduzione delle emissioni, segnala come il silenzio verde si stia allargando. Su un campione di 1200 aziende in 12 Paesi, fortemente impegnate nella riduzione di emissioni e dotate di obiettivi net-zero, una su quattro ha deciso di non comunicare le sue iniziative in ambito climatico. Una tendenza preoccupante: non avere a disposizione dati pubblici rispetto agli obiettivi ambientali e climatici rende più difficile la loro valutazione e limita la circolazione di conoscenze sulla decarbonizzazione, portando potenzialmente alla definizione di obiettivi meno ambiziosi e a limitate opportunità di collaborazione tra i vari settori industriali.

Greenhushing, le ragioni dietro al silenzio

Più ricerche ci dicono che cittadini e consumatori premiano servizi e prodotti che si dimostrano attenti e responsabili nei confronti di persone e Pianeta. Perché quindi preferire il silenzio?

In realtà, chi pratica greenhushing lo fa per diversi motivi. C’è chi con il silenzio verde confonde le acque in maniera consapevole, prima annuncia un grande traguardo e poi di colpo tace rispetto al suo effettivo raggiungimento, senza dare informazioni rispetto a obiettivi intermedi e risultati. In questo caso, non comunicare potrebbe nascondere la mancanza di una strategia a medio-lungo termine o di una misurazione costante e puntuale dei propri target. Insomma, un silenzio selettivo che crea opacità intorno al proprio agire sostenibile.

C’entra anche il greenwashing

Ma c’è anche chi è davvero impegnato in percorsi di sostenibilità e comunque preferisce non esporsi, per timore di non fare abbastanza oppure di non raggiungere i propri obiettivi. Qui, il greenhushing nasce da un’ansia da prestazione che è strettamente collegata alla grande risonanza mediatica intorno al fenomeno del greenwashing. I capitomboli sonori che hanno coinvolto imprese importanti – alcune considerate leader in ambito sostenibilità (pensiamo a Fileni) – insieme ai controlli sempre più stringenti dell’Europa in materia di “dichiarazioni verdi”, rischiano di spaventare piccole e grandi imprese e scoraggiarle nel loro percorso ESG.

Anche per questo, è importante “non trasformare il dibattito intorno al greenwashing da un approccio di controllo e verifica a uno spauracchio che può dissuadere anziché incoraggiare gli sforzi verso una politica ESG” (qui il commento di Sergio Vazzoler).

Questo significa che il greenwashing va tollerato? Sicuramente no, è sacrosanto che chi è impegnato in maniera autentica si distingua da chi lo fa per sola facciata. Allo stesso tempo, però, non porta alcun vantaggio buttare tutti nello stesso calderone, dall’azienda che ha tutte le risorse e le competenze per sapere che sta praticando greenwashing alla piccola realtà che manca di consapevolezza e contesto e pecca per inesperienza. Come non giova a nessuno “sbattere il mostro in prima pagina”. Il rischio è creare un silenzio assordante in cui la sostenibilità lentamente si spegne.

 

Micol Burighel