CSRD: primo anno di rendicontazione tra conferme, differenze e prospettive

Le analisi di Deloitte, KPMG e il benchmark danese tracciano un quadro composito ma chiaro: la strada verso l’integrazione è tracciata, ma resta ancora molto da fare (come era prevedibile).
Con la conclusione del primo esercizio di rendicontazione secondo gli European Sustainability Reporting Standards (ESRS), introdotti dalla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), è il momento per le imprese italiane – e non – di tirare le somme. Due analisi approfondite – una di Deloitte e una di KPMG – offrono un quadro utile non solo per comprendere lo stato dell’arte, ma anche per orientare i prossimi passi in modo più consapevole. Entrambe le ricerche si focalizzano su società quotate italiane, ma con approcci e punti di osservazione complementari.
Quanto e cosa è stato rendicontato
Secondo Deloitte, che ha analizzato 85 società quotate su Euronext Milano, la prima evidenza è quantitativa: i report pubblicati sono mediamente molto estesi – circa 150 pagine – con punte che superano anche le 350, soprattutto nei settori finanziario ed energetico. I temi trattati sono in media otto, con il cambiamento climatico (E1) come tema universalmente presente, seguito dalla forza lavoro (S1) e dalla condotta aziendale (G1).
KPMG, da parte sua, osserva una maggiore attenzione alla catena del valore: tutte le 100 società analizzate (di cui 91 quotate e 38 del FTSE MIB) hanno identificato almeno un impatto, rischio o opportunità legato a fasi a monte o a valle. Segno che la visione sistemica del business è ormai parte integrante del reporting. Tuttavia, resta un’eterogeneità marcata nei metodi: il numero di IRO (Impatti, Rischi e Opportunità) varia da 14 a 122, evidenziando una mancanza di standardizzazione nell’applicazione della doppia materialità.
I piani di sostenibilità: presenti ma non ancora strategici
Un altro tema rilevante è il grado di integrazione tra sostenibilità e strategia aziendale. Secondo Deloitte, molte imprese hanno fissato target di riduzione delle emissioni (68%), ma solo una minoranza ha indicato anche una scadenza chiara, in genere il 2050. KPMG conferma che l’80% delle imprese dispone di un piano di sostenibilità, ma solo il 37% lo integra realmente nel piano industriale. È evidente che la sostenibilità è ancora spesso trattata come un documento a sé stante, più che come leva strategica.
Le opportunità ESG, ad esempio, sono ancora poco valorizzate: se l’analisi dei rischi è spesso ben integrata nei sistemi di controllo, le opportunità raramente trovano spazio nella pianificazione. Si conferma però una tendenza positiva: la quasi totalità delle imprese lega i target ESG ai sistemi di incentivazione del top management, in particolare su temi come riduzione delle emissioni GHG e parità di genere.
Decarbonizzazione e scenari: tra ambizione e prudenza
Uno dei punti di maggiore attenzione, in entrambi i report, è la rendicontazione legata alla transizione climatica. Deloitte sottolinea come il 77% delle imprese abbia incluso un’analisi di scenario per valutare la resilienza ai rischi climatici. Tuttavia, solo una parte di queste ha sviluppato veri e propri piani di transizione, e ancora meno ha validato i propri target Net Zero secondo standard riconosciuti come SBTi.
KPMG evidenzia una dinamica simile: 52 imprese dichiarano un impegno verso il Net Zero, ma meno della metà ha target certificati. In sostanza, l’ambizione non manca, ma la concretezza e la validazione scientifica sono ancora un punto debole.
Uno sguardo al Nord: il caso Danimarca
Per capire dove può arrivare l’Italia, è utile guardare a chi è partito prima. Un benchmark condotto dalla società danese Evolve Solutions, in collaborazione con Amapola, ha analizzato le performance di conformità di 25 grandi aziende danesi, tra le prime ad aver pubblicato bilanci secondo CSRD.
Utilizzando la piattaforma E‑V‑E AI Compliance Manager, l’analisi ha valutato oltre 500 metriche degli ESRS. Nessuna azienda ha raggiunto una piena compliance, ma la fotografia restituisce una realtà più avanzata nella gestione dei dati quantitativi – eredità della lunga tradizione di reporting volontario – e più debole nelle disclosure qualitative. In particolare, risultano carenti le informazioni su investimenti nella transizione, strategie di resilienza climatica e impatti legati all’inquinamento (standard E2).
Oltre la compliance: un reporting che fa strategia
I risultati italiani e danesi convergono su un punto: il percorso verso la piena applicazione della CSRD è avviato, ma non ancora maturo. La quantità di dati cresce, la compliance migliora, ma il passaggio da adempimento a strategia richiede un cambiamento più profondo: nei processi, nelle governance, nella cultura aziendale.
Le aziende italiane sono oggi chiamate a consolidare l’approccio alla doppia materialità, rafforzare l’integrazione dei piani ESG nella pianificazione industriale, investire in strumenti digitali per rendere il reporting più efficace e accessibile. È una sfida complessa, ma anche una grande opportunità per costruire credibilità, trasparenza e valore nel tempo.
Micol Burighel